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LITTLE TIANJIN BREVE VIAGGIO ALLA SCOPERTA DELL’ITALIA DI CINA, TRA ARCHITETTURA ART-DECÒ E SPAGHETTI ALLA CARBONARA

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Se pensate che una delle sensazioni più strane che una persona possa provare sia quella di ritrovarsi catapultata in un posto lontano anni luce dal suo per lingua, abitudini alimentari, usi e costumi, ambiente e architettura, siete decisamente fuori strada. Mai sensazione è stata infatti più straniante per un’italiana a chilometri di distanza da casa di quella di ritrovarsi, improvvisamente e inavvertitamente, di nuovo a casa. Nelle vesti di un personaggio di un’Italia in miniatura, a tratti grottesca e caricaturale, dalle proporzioni paradossalmente grandi.
Questo è il singolare sentimento che si prova mettendo piede per la prima volta nella concessione italiana della città di Tianjin. Tianjin, conosciuta in occidente come Tientsin, è storicamente una delle città più vicine alla cultura occidentale di tutta la Cina. Quello che viene definito come il porto di Pechino ha infatti aperto le sue porte ai traffici con l’altro mondo, in particolare con la flotta britannica, fin dal 1800. Solo più tardi, 1901, in seguito all’aiuto ricevuto da vari paesi occidentali, Italia compresa, nella lotta alla rivolta dei Boxers sono state concesse porzioni di territorio in funzione di sedi diplomatiche per l’oriente. Dopo la seconda Guerra Mondiale con i trattati di Parigi, l’Italia doveva però rinunciare alla sua concessione.
Ma a Tianjin, nel cuore della Cina, si respira ancora oggi un’atmosfera che è per un italiano al tempo stesso familiare e straniante. All’ingresso del quartiere italiano siamo stati accolti da un’imponente insegna “Italian Style Town” in ferro battuto. Il quartiere, di ispirazione spiccatamente Liberty e art-decò, si snoda attraverso una serie di viali che portano ben marcata la nostra impronta. E non solo per i nomi delle strade, da Piazza Dante a Corso Vittorio Emanuele III a Viale Carlotto, dal nome dell’eroe italiano caduto nella guerra contro i rivoluzionari cinesi. No, la Little Italy cinese è una vera e propria bomboniera appoggiata sulla città. Basta svoltare l’angolo per ritrovarsi in una singolare Piazza Regina Elena che porta al centro un monumento alla Vittoria, in stile tutt’altro che cinese. Un po’ più in là, proprio di fronte al ristorante “Nuovo Cinema Paradiso”, sposi cinesi si lasciano fotografare davanti ad una fontana di marmo bianco. Ovviamente l’economia di questo luogo così particolare sembra ruotare tutta intorno al turismo e all’industria del divertimento. Decine e decine i ristoranti con tavolini all’aperto, dove camerieri cinesi in pantaloni neri e camicia bianca, porgono all’avventore un menù in cui carbonara ed insalata la fanno da padroni. E i cinesi, in una soleggiata domenica di maggio non sembrano resistere al fascino di quella che è un’Italia a portata di mano. Frotte di turisti passeggiano sfoggiando il cappello da gondoliere appena comprato, zucchero filato tra le mani, districandosi tra bancarelle che espongono maschere veneziane e biografie di Matteo Ricci, il primo italiano ad essere entrato davvero nel cuore della Cina e dei cinesi. Ma non è solo grazie all’architettura e al paesaggio che si ha la inspiegabile sensazione di sentirsi a casa. Qui a Tianjin la cordialità delle persone fa dimenticare la disinvolta superficialità che spesso contraddistingue il frenetico e frettoloso atteggiamento dei pechinesi. E dire di essere italiani è un sicuro passepartout per assicurarsi sorrisi benevoli e curiosi. Come quello della vecchina che vende cianfrusaglie che ti fa spazio sul suo sgabello per raccontarti del figlio che vive e lavora in Italia e che ormai non vede da molto tempo, delle speranze che lei e il marito hanno riposto in lui e di quelle che lui ha riposto nel nostro paese. O del signore che sull’autobus studia la lingua di Dante da un vecchio libro anteguerra sul quale si tenta di illustrare l’intonazione della nostra parlata attraverso schemi e linee. E stupisce sapere che sono ancora tantissimi i cinesi che studiano italiano nella speranza, che a noi ha tutta l’aria di essere paradossale, di trovare un lavoro che li porti a vivere in quello che ancora è considerato – questo sì, a ragione – il Bel Paese.
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